Salento - Cultura e spettacolo

Intervista a Franco Ungaro: così è nato Koreja


    Salento -  Cultura e Spettacoli
 
    

Intervista a Franco Ungaro
«Così è nato e cresciuto Koreja»

     
di Adelmo GAETANI

(nuovo quotidiano di Puglia)



Salento -  Non dev’essere facile per chi vive e opera nel mondo del teatro restare sempre dietro le quinte. Agli altri la scena, gli applausi, quando ci sono, la notorietà, quando arriva. A lui il fardello dell’organizzazione, che significa lavoro di gomito, ma, anche apporto intellettuale. Lui è il tipico personaggio - o antipersonaggio? - cui è toccato di cantare e di portare in spalla la croce. Operazione svolta con pazienza, modestia, disponibilità all’ascolto e, quando la situazione lo richiede, con il ricorso al classico pugno di ferro. In guanto di velluto, però. Del resto non si raggiungono grandi obiettivi senza la giusta determinazione o se non si ha il coraggio di scelte difficili. Franco Ungaro, ispiratore, animatore e uomo tuttofare dei Cantieri Teatrali Koreja è tutto questo e anche qualcosa di più. E’ il protagonista, assieme ad altri che da anni sono al suo fianco, di un autentico miracolo per il Sud e, se vogliamo esserne un po’ fieri, per il Salento e Lecce. Il miracolo della creazione di uno dei 13 Teatri stabili di ricerca e innovazione esistenti in Italia e riconosciuti dal Ministero per i Beni culturali, ma unico a disporre di una struttura propria, a differenza degli altri 12 che operano in strutture messe a disposizione dalle Amministrazioni pubbliche. Se non è miracoloso questo.


Una storia lunga, iniziata negli anni Settanta, quando da Leporano, dove è nato, Franco Ungaro si trasferisce a Lecce per frequentare la Facoltà di Filosofia.
«Tutto comincia un po’ per caso – ricorda -. Mentre lavoro alla tesi in Morale con il compianto professore Nicola M. De Feo, frequento il corso di Storia del teatro animato da docenti come Ferdinando Taviani e Nicola Savarese. Sono due studiosi che hanno un rapporto diretto con Eugenio Barba, regista di origini salentine trasferitosi in Danimarca dove aveva dato vita all’Odin Teatret, gruppo della nuova avanguardia che si ispira alla lezione di Grotowski».
Cosa c’entra questo con la sua passione per il teatro?
«Beh, c’entra, perché proprio Eugenio Barba con il suo gruppo è protagonista nell’estate del 1974 di una performance teatrale a Carpignano Salentino. Un’esperienza all’aperto, una sorta di baratto culturale tra attori e gente del posto che io e tanti altri seguiamo con curiosità e interesse. In quell’occasione nasce anche la Festa te lu Mieru, un appuntamento entrato nella tradizione salentina».
Dunque, all’inizio c’è la curiosità.
«Sì, ma anche un’attrazione forte che mi porta a cercare spettacoli, festival in giro per l’Italia. Vado a Sant’Angelo di Romagna dove si svolge uno dei festival più antichi. E lì imparo tanto, ma in mente non matura ancora alcuna idea precisa».
Quando la svolta?
«Agli inizi degli anni Ottanta, nel momento in cui Salvatore Tramacere, che ho conosciuto ai tempi dell’Università e che ha la mia stessa passione per il teatro, assieme a un gruppo di amici decide di andare a vivere in una vecchia masseria di Aradeo. L’affitto si paga facendo i lavori di ristrutturazione. Presto quel posto diventa un punto di riferimento per tanti giovani, si organizzano concerti, presentazioni di libri, workshop e spettacoli teatrali anche con attori dell’Odin, tutto nel segno di un grande spontaneismo».
Lei come segue questa realtà?
«In quel periodo sto a Busto Arsizio dove insegno, mi sento con Salvatore e intanto entro in contatto con i gruppi della post-avanguardia come Morbido Atterraggio, Magazzini di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, Falso Movimento di Mario Martone. Una grande esperienza che a quel punto posso mettere a disposizione di un progetto».
Che cosa accade?
«Nel 1985 decido di tornare nel Salento per contribuire a rafforzare l’esperienza in incubazione ad Aradeo. Nasce una cooperativa, mettiamo in scena “Dovevamo vincere”, il primo spettacolo prodotto da Koreja. Attore e regista è Cesar Brie, un argentino esiliato in Italia».
La macchina inizia a muoversi con lei che si ritaglia un ruolo prevalentemente organizzativo. Come mai?
«È una fase in cui tutti si fanno carico di tutto. Scriviamo i testi teatrali, ci occupiamo della manutenzione del luogo, allestiamo gli spettacoli. Tuttavia, durante la permanenza in Lombardia ero stato colpito dall’alto livello organizzativo, professionale direi, che caratterizza anche le esperienze più spontanee e alternative. Penso: bisogna puntare sull’organizzazione per dare senso e prospettiva a una qualsiasi iniziativa. Così mi butto a capofitto facendo mia l’esperienza di un nostro grande conterraneo, il martinese Paolo Grassi, intellettuale e manager culturale che con Giorgio Strelher dette vita al Piccolo Teatro di Milano. Paolo Grassi è stato il mio modello».
Il suo obiettivo?
«Dare vita, qui nel Salento, a una compagnia teatrale stabile e professionale, con gente che lavora e artisti a tempo pieno. Una scommessa contro quella iattura che costringeva all’emigrazione forzata i nostri migliori talenti. E parliamo anche di geni universali e capisaldi della storia del teatro come Carmelo Bene ed Eugenio Barba che hanno potuto solo in modo sfuggevole dare un contributo alla crescita della loro terra».
Aradeo è stata la vostra prima casa.
«Lì è nato Koreja e ha potuto superare le inevitabili difficoltà anche grazie al sostegno dell’Amministrazione comunale. Per 14 anni, dal 1983 al ’97, abbiamo fatto vivere il festival “Aradeo e i teatri”, un appuntamento cresciuto nel tempo».
Poi Lecce.
«Costretti a lasciare la masseria di Aradeo, nel ’97 c’è l’approdo nel capoluogo, nell’attuale sede di via Dorso. Dal momento che nessuno vuole darci una mano, acquistiamo, contraendo un mutuo, un capannone abbandonato da decenni. Dopo i lavori di ristrutturazione diventa la nuova dimora dei Cantieri Teatrali Koreja».
Una casa che da 15 anni è un centro pulsante di attività artistiche e culturali di grande respiro.
«Abbiamo mosso le acque stagnanti della cultura di questo territorio, possiamo dirlo. I Cantieri sono un luogo dove si coglie un’atmosfera internazionale, un luogo di passaggio di artisti provenienti da tanti Paesi europei ed extraeuropei. Ma anche un centro di produzione di spettacoli ad alto livello che Koreja porta in giro in tutto il mondo. Siamo appena tornati dall’Iran, ad aprile saremo in Bolivia, a maggio in Turchia, a giugno in Brasile, a settembre in Polonia, poi in Inghilterra, in Bulgaria, in Macedonia e così via. Un’attività incessante attraverso la quale viene veicolata anche l’immagine di Lecce».
La città ne è riconoscente?
«Purtroppo, non abbiamo nessun rapporto con l’Amministrazione comunale, nessun dialogo rispetto all’elaborazione di un progetto culturale condiviso per una città d’arte, nonostante la piena disponibilità a mettere a disposizione le competenze acquisite in anni di attività. Ci piacerebbe che l’Amministrazione avesse nei nostri confronti la stessa sensibilità dimostrata in situazioni e tempi diversi dal Comune di Aradeo, dalla Provincia e dalla Regione (prima con Fitto presidente, poi con Vendola)».
“Dimettersi dal Sud” è il titolo di un suo libro sulla storia di Koreja. Pessimismo o altrimenti cosa?
«Il libro nasce quando avverto l’esigenza di raccontare l’esperienza di una realtà come Koreja che ha segnato un punto di svolta nella vita culturale del nostro territorio. Ma, nasce anche quando il Salento diventa di moda e meta turistica e lo diventa soprattutto grazie a un’immagine legata alla pizzica, al tarantismo, al folclore. Questo è uno stereotipo, un luogo comune, un modo di rappresentare un Sud ancora prigioniero della sua arretratezza. Da questo “film” ho voluto prendere le distanze, rassegnando simbolicamente le “dimissioni” in nome di un Salento che, come dimostra l’esperienza di Koreja, è capace di muoversi dentro i circuiti culturali internazionali e di valorizzare le particolarità di una terra attraversata nei secoli da storie e popoli diversi. Insomma, il Salento a cui guardiamo è quel “bordello di culture” di cui parlava Carmelo Bene, capace di elaborare una nuovo linguaggio teatrale sulla scia della ricerca e della sperimentazione di uomini geniali come Eugenio Barba».
Soddisfatto di quanto fatto sinora?
«Personalmente sono insoddisfatto per natura, penso che le cose migliori devono ancora arrivare. Ma, mi preme sottolineare che quanto è stato già realizzato è il frutto di un’esperienza collettiva, del lavoro di tante persone che hanno scelto di mettere intelligenze ed energie a disposizione di un progetto ambizioso, ma concreto e, soprattutto, coerente con la vocazione più profonda della nostra terra».


Pubblicato il 06/03/2011


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