Il disco del mese: Fabrizio De Andrè - Creuza de mä

A dieci anni dalla scomparsa dell'indimenticabile cantautore Genovese, uno dei suoi dischi più amati

Questo album rappresenta una piccolo tesoro nascosto in uno scrigno, dato che è interamente cantato in una lingua inaccessibile per chi come me non è ligure: dialetto genovese. Servirebbe un traduttore per poter aprire quello scrigno; uno scrigno comunque molto attraente, dato che la musica è scritta in collaborazione con Mauro Pagani (ex PFM), grande cultore di strumenti etnici.

L'idea portante è quella del viaggio, della navigazione, del mare, ed i personaggi incontrati durante la traversata sono perfettamente riprodotti, così come i suoni del Mediterraneo, con le voci del mercato del pesce di Piazza Cavour a Genova.

La prima traccia è "Creuza de mà", la mulattiera di mare nella quale si incrociano i marinai che vanno a mangare alla Taverna di Andrea. "Jamin-a", la lupa dalla pelle scura, è una prostituta che ogni marinaio vorrebbe incontrare alla fine del suo viaggio, a mo' di premio per i pericoli corsi durante la navigazione.

"Sidun" è il lamento di un padre che ha morire il suo figlioletto a causa della guerra civile nel suo Paese. De Andrè parla di questo padre riferendosi alla morte di una civiltà, quella del Libano, della Fenicia e della Palestina, che è stata assieme alla Grecia una delle madri della civiltà mediterranea.

La storia di "Sinan Capudan Pascià" è accaduta veramente: un marinaio genovese, salvando la vita di un sultano arabo fu nominato "gran vizir".

"A pittima" era l'esattore delle tasse, una figura piuttosto odiata, ma che si è trovato ad essere emarginato solo per via delle caratteristiche fisiche: "che cosa posso farci se non ho le braccia per fare il marinaio, se ho il torace largo quanto un dito".

In "A dumenega" alle prostitute è concessa la passeggiata domenicale, dopo essere state relegate nel loro quartiere per tutta la setimana. E verso di loro volano gli insulti di chi grida loro qualsiasi cosa (ma durante la settimana va a trovarle), di chi si complimentava per gli incassi (nell'antica Genova era un "business" gestito dal Comune), e di chi, mentre urla di tutto, riconosce tra di loro sua moglie.

"D'a me riva" è il pezzo del distacco tra il marinaio e la sua terra, e la sua ragazza, che lo saluta dal molo.
"Dalla mia riva solo il tuo fazzoletto chiaro, dalla mia riva...
Nella mia vita il tuo sorriso amaro, nella mia vita...
Mi perdonerai il magone, ma ti penso contro sole
e so bene che stai guardando il mare un po' più al largo del dolore...
E son qui affacciato a questo baule da marinaio e son qui a guardare
tre camicie di velluto, due coperte e il mandolino e un calamaio di legno duro...
E in una berretta nera la tua foto da ragazza
per poter baciare ancora Genova sulla tua bocca in naftalina...."

Andrea Torre
Pubblicato il 09/01/2009


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